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04 agosto 2010

NYT: l’Italia è troppo italiana

Un articolo del New York Times analizza i mali dell’economia italiana

Parte con una definizione un pò snob dell'Italia data dall'Enciclopedia Britannica l'articolo del New York Times del 2 agosto sul Bel Paese. Nella definizione si parla di luogo piacevole e frammentazione. La stessa frammentazione politica e sociale che si aveva al momento dell'unità istituzionale. Si legge nell'articolo: "  ma l'Italia , unita pienamente solo nel 1870 , ha lottato a lungo , non tanto con la sua identità con il concetto di sé come una singola unità lavorativa verso obiettivi comuni. E 'stato fondamentale per la formazione dell'Unione europea, e dopo la distruzione della seconda guerra mondiale , costruito con la stessa energia non comune per riconquistare un posto nella economia globale. Ma diffidente verso l'autorità , dopo secoli di governo decentrate e spesso arbitrarie , gli italiani tendono a sentirsi fedeltà a livello locale : per regione o città o , più comunemente , per la famiglia stessa .

La frammentazione si è rivelata in politica. Dalla seconda guerra mondiale , più di 60 governi sono aumentati e diminuiti , e politici hanno avuto successo poco vincente accordo sui cambiamenti strutturali per rendere il lavoro migliore government e mantenere un'economia una volta - robusta crescita . In mezzo a un netto rallentamento negli ultimi anni, molti italiani hanno descritto la loro frustrazione per la mancanza di cambiamento senza modelli chiari in vista come un malessere ".

Non basta che pochi giorni fa le sette banche italiane abbiano superato gli stress test e che più volte sia stato affermato come non vi sia un rischio bancarotta: il quotidiano di New York scrive: «Ricerche e dati rivelano sintomi di sofferenza che ricordano molto quelli della Grecia». Poi l’elenco delle similitudini. I mali: un debito pubblico che è al 118% del Pil, «pressocché identico alla Grecia». E i rimedi: Roma come Atene ha cercato di tranquillizzare l’Eurozona varando un pacchetto di austerity che dovrebbe dimezzare il deficit, al 2,7% del Pil, entro il 2012.

I paragoni lusinghieri finiscono qui, gli altri difetti sono tutti nostri, unici come gli abiti di Barbera. Il problema non sarebbe il debito di dimensioni greche ma la mancanza di crescita che coinvolge tutto il paese e le sue eccellenze. Bisogna solo tutelare meglio il made in Italy e regolare le etichette? Quello è solo uno dei tanti ostacoli – scrive il giornalista del Nyt – i problemi veri sono una incredibile «idiosincrasia con la cultura del business» «una sfiducia così radicata unita a una diffusa avversione al rischio e alla crescita che agli occhi di un americano appare quantomeno bizzarro». Poi si passa ai mali corporativi, le resistenze alle liberalizzazioni delle associazioni di categoria (in italiano nel testo). Il cronista annota «In Italia anche le baby sitter hanno un’associazione» e riporta le disavventure dell’economista Francesco Giavazzi su un taxi milanese verso l’aeroporto. Il calcolo del tempo dei tassametri italiani è un’informazione preziosa: gli americani sanno che si rischia di pagare anche 20 minuti prima essere saliti a bordo. Tutto ciò è legale e in fondo risaputo: dai tassì al tessile – conclude il Nyt – l’Italia preferisce la tradizione alla crescita.

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