26 settembre 2011
Nascosto nella manovra il salvagente per tutelare i farmacisti
di Daniele Autieri - Affari e Finanza
C’è un salvagente nascosto nella manovra finanziaria alla voce "liberalizzazioni, privatizzazioni e altre misure per favorire lo sviluppo" che mette al sicuro i farmacisti italiani e li mantiene al riparo dal mercato e dalla concorrenza. Nell’ultima versione del testo, prima del voto in Senato, è stata inserita una postilla attraverso la quale si riconosce la libertà dell’attività economica privata ad eccezione dei casi in cui intervengono «disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana».
Poche parole che vogliono dire molto perché grazie ad esse le farmacie in Italia mantengono il loro status di casta chiusa alla domanda di liberalizzazione che arriva dall’esterno. E un’altra vittoria dello status quo è stata messa a segno il 5 settembre scorso quando la commissione Bilancio del Senato ha respinto tre emendamenti che chiedevano la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, quelli venduti con la presentazione di una ricetta medica ma non a carico del Sistema sanitario nazionale.
«Ancora una volta – ha denunciato l’Associazione nazionale parafarmacie italiane – abbiamo verificato che il governo nei confronti delle caste non può fare riforme liberali».
La lobby, del resto, agisce dall’interno se è vero che il presidente della commissione Sanità del Senato, il senatore Pdl Luigi D’Ambrosio Lettieri, è anche presidente dell’ordine dei farmacisti di Bari dal 1996 e vicepresidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani.
Da parte sua la categoria si difende: «Anche noi siamo per un processo di ammodernamento – spiega Andrea Mandelli, presidente della Federazione nazionale dei farmacisti – nel quale però si riconosca il farmaco come un bene esistenziale e non di mercato». «Il rischio – continua – è quello di una commercializzazione del settore che guardi solo all’interesse economico perdendo di vista il servizio pubblico fornito alla collettività».
In realtà la legge parla chiaro: lo Stato, in particolare le Regioni, possono rilasciare licenze per aprire una farmacia ogni 5mila abitanti se il comune ha una popolazione inferiore alle 12mila anime, e ogni 4mila se l’anagrafe del comune supera quella cifra. Questo significa che in regioni come Lazio e Puglia i concorsi non si svolgono da 15 anni, ancora di più nel caso della Campania. Ristretto è quindi anche il numero degli attori in gioco: il business delle farmacie italiane è in mano a 17mila titolari, mentre sono 34mila i collaboratori che hanno preso la laurea e superato l’esame di stato, ma sono costretti a svolgere le funzioni di semplici commessi.
«Siamo l’unica categoria – attacca Vincenzo Devito, presidente del Movimento Nazionale Liberi Farmacisti – in cui la maggioranza degli iscritti all’ordine non può esercitare la professione. L’esame di stato viene superato in media dal 95% dei candidati. Questi ragazzi si iscrivono all’albo e poi diventano manovalanza a basso costo».
In realtà le barriere alzate contro la liberalizzazione non penalizzano solo i giovani che bussano alle porte del mercato, ma il mercato stesso e minano i principi della libera concorrenza. Secondo il Codacons, la riforma Bersani del 2006 con la liberalizzazione dei farmaci da banco ha prodotto in cinque anni 1,6 miliardi di euro di risparmi per i cittadini grazie agli effetti benefici introdotti dalla concorrenza. Non solo: dal 2006 ad oggi sono nate circa 3.600 nuove aziende specializzate nella vendita di questi farmaci e sono stati creati oltre 7mila posti di lavoro.
Ma non è tutto perché l’impatto delle liberalizzazioni di cinque anni fa è scritto nei numeri. A maggio 2011 il numero delle parafarmacie aperte era di 3.616 unità, di cui solo il 15% legato alla grande distribuzione e la stragrande maggioranza (85%) di proprietà di giovani farmacisti. Inoltre nel 2010 lo sconto praticato da farmacie e parafarmacie sui farmaci d’automedicazione è stato pari a 100 milioni di euro.
E un impatto ancora più consistente sul mercato l’avrebbe avuto oggi la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, bloccata dalla maggioranza di governo. L’apertura del settore avrebbe assicurato un risparmio annuale minimo sul prezzo di acquisto nell’ordine di 480 milioni di euro con la creazione di 9mila nuovi posti di lavoro e investimenti privati per 700 milioni di euro.
Sarebbe stato un passo importante anche per riavvicinare l’Italia all’Europa dove la liberalizzazione delle farmacie non è più un tabù. È così in Polonia, Belgio e Grecia dove tutti i vincoli professionali sono stati abbattuti; poco più stringente è la normativa inglese che richiede l’autorizzazione del servizio sanitario e del sindacato dei titolari di farmacie, mentre in Francia nel 2008 il governo è intervenuto sui numeri, concedendo l’autorizzazione ad aprire una farmacia ogni 2.500 abitanti. Anche su questo fronte il nostro Paese si mostra indietro rispetto all’Unione europea dove in media esiste una farmacia ogni 3.300 cittadini, ben al di sotto della soglia italiana dei 4/5mila.
Per gli aspiranti farmacisti si tratta di un muro invalicabile, eretto da frange corporative ancora forti che trovano una sponda amica in Parlamento. Per abbatterlo e favorire la libera concorrenza, sarebbe sufficiente approvare una riforma che riconosca la farmacia come un bene patrimoniale privato, liberamente trasferire a chiunque, aperta senza vincoli e limitazioni territoriali, con il solo obbligo della direzione responsabile di un farmacista, non necessariamente titolare o proprietario. Per scrivere una riforma del genere non servirebbe guardare al futuro, ma basterebbe rileggere la legge 5849 del 22 dicembre 1888 che porta il nome del suo promotore, l’allora presidente del Consiglio del Regno d’Italia, Francesco Crispi
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