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17 agosto 2012

Farmacia, farmacisti e rappresentanza

Di Gaetano De Ritis

(tratto dalla Rassegna Informativa dell'Ordine di Roma)

Nella chiacchierata che ha preceduto la redazione di queste righe, il condirettore di questo giornale Giorgio Flavio Pintus, oltre alle consuete raccomandazioni sul rispetto del numero delle battute, mi ha regalato una suggestione che voglio condividere e dalla quale voglio partire. Riferendogli tutte le mie perplessità in ordine a iniziative come quella del “tavolo a difesa della professione” recentemente convocato dalla Fofi e al quale ho personalmente preso parte, Pintus – avvertendo la mia delusione per l’esito dell’incontro – non ha potuto fare a meno di fare il suo mestiere, ovvero il giornalista, facendomi una domanda secca: “Ma tu, scusa, che ti aspettavi da un’iniziativa come quella?”


“Niente di più di quel che poi è avvenuto” ho dovuto ammettere.


“Quindi la tua delusione da cosa nasce?”

“Dall’aver constatato una volta di più che la professione, in mezzo a una crisi senza precedenti, continua a non avere visione strategica.
Gli obiettivi comuni, se e quando esistono, sono condivisi solo a parole, a prevalere sono le necessità e gli egoismi settoriali: la verità e che si procede in ordine sparso e si gira a vuoto…
” gli ho risposto di getto.


“Fossi in te, mi metterei il cuore in pace: difficile che a breve-medio termine possa cambiare qualcosa” ha ribattuto Pintus.
“A meno che, beninteso, i farmacisti non si decidano finalmente a cambiare sedile.
Ma non mi pare davvero che ci sia l’intenzione di farlo.”


“Cambiare sedile? Quale sedile?” ho chiesto.


“Vedi, io continuo a pensare che la farmacia sia un auto straordinaria, che potrebbe viaggiare tranquillamente e in sicurezza per un tragitto ancora molto lungo” ha risposto. “Il problema è che da troppi anni, e in particolare nell’ultimo lustro, i farmacisti si sono tutti spostati sul sedile di dietro: c’è chi fa ciao con la manina a ogni passante che incrocia, chi si sporge dal finestrino per farsi ben vedere da tutti, chi, meno fortunato, deve fare i conti con attacchi di cinetosi…
Ma sono tutti lì, sul sedile di dietro.
E al posto di guida si sono seduti altri, che magari pensano a destinazioni diverse da quelle che servirebbero alla professione.”
La metafora – a mio giudizio illuminante: per questo ho voluto “rubarla” e condividerla – è un punto di partenza perfetto per questo “messaggio in bottiglia”.
Che vuole appunto essere solo una piccola riflessione sulla rappresentanza, ovvero quella necessaria funzione che costituisce l’espressione a un tempo prima e ultima di una professione, che su base fiduciaria delega a un gruppo di persone “elette” (e quindi scelte: l’etimologia aiuta sempre a capire) al suo interno l’alto compito di farsi carico della guida di tutti.
Non ci vuole molto, infatti, per rendersi conto che nel variegato mondo della professione farmaceutica la rappresentanza ha finito per essere egemonizzata dalla sua componente più potente, come è peraltro comprensibile e forse anche inevitabile quando i determinanti culturali guardano più al realismo politico dell’homo homini lupus di Thomas Hobbes (che, come abbiamo imparato al liceo, trova soluzione e composizione solo in un ambito di assolutismo politico) e ignorano invece le lezioni proto-liberali del suo contemporaneo John Locke, convinto al contrario che l’uomo non nasca naturalmente in conflitto con gli altri uomini, ma ricerchi naturalmente l’aiuto e la compagnia dei suoi simili e, per sopravvivere ed elevare il suo stato, tenda a formare libere aggregazioni e stringere patti che non sono una restrizione arbitraria delle libertà individuali ma una necessità per un’ordinata e proficua convivenza che guardi all’interesse di tutti.
Chiedo venia per queste lontane reminiscenze liceali che possono apparire nient’altro che spocchiose pedanterie, ma in tutta franchezza non riesco a trovare chiave migliore di questa per illustrare il nodo della questione della rappresentanza senza ricorrere a termini e definizioni che certamente finirebbero per urtare più di una suscettibilità.
Diciamo, dunque, che se la farmacia italiana (intesa come “movimento”, come comunità professionale che esprime un corpus di saperi e competenze sostanzialmente omogeneo, anche se declinato in ambiti differenti e con sensibilità e necessità molto diverse) è arrivata nel centro della crisi che oggi minaccia di piegarla, se non addirittura di spazzarla via, molte delle responsabilità vanno attribuite agli “hobbesiani” che, forti della loro prevalenza, hanno guidato la macchina fino a oggi.
O meglio: che avrebbero dovuto guidarla.
Approfittando dell’inerzia positiva dovuta all’affermazione delle politiche di welfare – che ha consentito alla farmacia di avanzare e fino a un certo punto prosperare comunque – i farmacisti si sono infatti trasferiti da tempo sul sedile posteriore per occuparsi di altre faccende, magari personali e in ogni caso quasi sempre del tutto estranee alla necessità, forse ritenuta inutile e noiosa, di tenere l’auto in carreggiata.


Piaccia o no, questo è quello che la farmacia paga oggi: un clamoroso deficit di visione, un’abbondante porzione di negligente arroganza e insieme un’insistita, suicida inclinazione alla conservazione, che i passeggeri del sedile posteriore hanno poi maldestramente provato a rattoppare, inseguendo improbabili arabe fenici. Si veda, in proposito, la rumorosa rèclame di cui è stata fatta oggetto per interi anni la farmacia dei servizi, retoricamente contrabbandata come la soluzione di tutti i problemi della professione. Sarà bene prendere atto che la realtà è un’altra, fatta di un pugno di previsioni legislative certamente condivisibili ma ancora non attuate e destinate quasi certamente a rimanerlo (date le condizioni economiche e le tendenze in atto) per chissà quanti decenni ancora.
Oggi ci troviamo nella situazione che sappiamo, impotenti di fronte alla progressiva erosione dell’economia delle farmacie e (purtroppo!) dei contenuti della professione farmaceutica e per di più orfani di futuro e di prospettive.
 A fronte di questo, a meno di non essermi clamorosamente distratto, non mi è ancora capitato di ascoltare una sola parola da parte dei molti occupanti del sedile posteriore che suonasse come un’ammissione di responsabilità o una doverosa e ancora più apprezzabile richiesta di scuse.
Né ho raccolto segnali su quel che un minimo di dignità e di decenza suggerirebbe: farsi da parte.
Macché, sono tutti ancora lì, i piloti da sedile posteriore, sulla macchina che rimbalza impazzita da una corsia all’altra rischiando di entrare in collisione con mezzi più grossi e potenti che viaggiano in senso contrario.
Stanno lì a girare il volante alla sans façon e a fare cose nelle quali è difficile rintracciare un senso e che sono comunque inutili, come: prendersela con il Governo e con il destino, ovvii e soli responsabili della drammatica deriva della professione; dedicarsi a improbabili bricolage per costruire tavoli “a difesa della professione” che non sarebbero utili nemmeno nel caso si dovessero innalzare barricate; accusarsi ferocemente tra loro; approfittare di ogni occasione per una foto sulla prima pagina dei giornali di settore e una dichiarazione buona per ogni uso e consumo, in una frenetica corsa all’affermazione di sé che forse può avere qualche significato per i destini personali, ma non ne ha alcuno, ed è anzi un grave impedimento, per i destini della professione farmaceutica.


In questo quadro dove le tinte fosche non sono un effetto di coloritura ma il tentativo di raccontare la realtà per quella che è, qualcuno ha voluto porre la questione della rappresentanza professionale.
Chiedendosi – non oziosamente né inutilmente, almeno secondo me – se alla luce di quel che è successo e succede non sia il caso di modificare in profondità le modalità elettive delle rappresentanze provinciali e nazionali dell’Ordine professionale, nel tentativo di arrivare a esprimere organismi che siano realmente specchio di tutta, ma proprio tutta la professione, compresi i molti che guardano a Locke e non a Hobbes.
So bene che la questione investe complessi passaggi legislativi ed è tutt’altro che semplice. Ma se avessimo il coraggio di affrontarla partendo da noi stessi per proporla con serietà, responsabilità e convinzione, forse la nostra professione riuscirebbe a dare il segnale di avere ancora energie critiche, creative, consapevoli e vitali: la pre-condizione necessaria (anche se certamente non sufficiente) per imprimere una sterzata alla dissennata guida “dal sedile posteriore” che è certamente una delle cause del grave momento attraversato dalla farmacia e dai farmacisti italiani.
Perché, alla fine della fiera, è assolutamente vero ciò che espresse con mirabile efficacia Albert Einstein (parlava di fisica, ma alla fine è lo stesso…) quando sosteneva che “c’è bisogno di un nuovo modo di pensare per risolvere i problemi creati dal vecchio modo di pensare”.
 

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