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03 settembre 2012

I farmaci generici e le leggende metropolitane

Le leggende metropolitane sui farmaci generici sono molteplici e non sempre corrette.

Non tutti gli addetti ai lavori hanno le idee chiare e quando non si hanno le idee chiare è facile incorrere in errori  che portano inevitabilmente in questo Paese a battaglie di "ortodossia".

Questo vale per i medici quanto per i farmacisti obbligati per legge ad attenersi ai dati scientifici e non ai passa parola che non sempre sono "disinteressati".
Le recenti polemiche di una parte della classe medica sui farmaci generici sono ingiustificabili. Il medico di base ha a tutti gli effetti un rapporto diretto con lo Stato attraverso il S.S.N. , se le politiche economiche che lo Stato applica in tema di sanità non piacciono si possono contestare, ma non boicottare facendo pagare ai cittadini (spesso anziani) i relativi costi. Se non piacciono i farmaci generici, si prescrivano i farmaci "griffati" (per le patologie croniche), ma non s'impedisca (con la scritta NON SOSTITUIBILE) la scelta alle persone che hanno certamente un rapporto più diretto con il proprio "portafoglio".


Tutti hanno diritto alla tutela della salute e tutti debbono potersi curare, ma 30 o 40 euro spesi per i "capricci" di qualcuno quando si prende 400 euro di pensione al mese sono veramente troppi.


Ritornando allle leggende metropolitane, crediamo di far cosa utile richiamando una di queste leggende, quella della presupposta differenza di ± 10/20% di principio attivo in capo al farmaco generico rispetto al farmaco di marca.


Certo un medico o farmacista nel proprio corso di laurea fanno studi adeguati per non cadere in certe "trappole" tese da chi ha interesse alla confusione, tuttavia è bene rinfrescare a tutti la memoria anche per fornire ai cittadini strumenti utili a difendere i loro interessi.
Quello che una parte della classe medica che si oppone ai generici creando non pochi disagi ai cittadini non ha ancora capito è che le battaglie per tutelare la salute non si fanno boicottando un provvedimento che produce risparmi per il S.S.N. e per le persone, oltretutto in un momento economico difficile, ma chiedendo maggiori garanzie, come quella d pretendere, come succede negli Stati Uniti un RedBook, ovvero una pubblicazione ove vengono riportati per ogni farmaco "generico" le bioequivalenze studiate  permettendo al medico di scegliere quello che più si avvicina alla biodisponibilità di riferimento.


Perché i medici non avanzano questa richiesta?


Quello che segue è un chiarimento obbiettivo su tale leggenda.


Il concetto di contenuto di principio attivo e il concetto di bioequivalenza non sono la stessa cosa. La disinformazione sta nel sovrapporre questi due concetti. Per legge un farmaco generico per ottenere l'autorizzazione all'immissione in commercio da parte del Ministero della Sanità (AIFA) deve tra i vari requisiti avere la stessa composizione qualitativa e quantitativa in principio attivo rispetto alla specialità "griffata" di riferimento. Quindi se quest'ultima contiene 100 mg di principio attivo, anche il farmaco generico deve contenere 100 mg dello stesso principio attivo. La bioequivalenza è un altro requisito che il farmaco generico deve avere rispetto al farmaco griffato di riferimento. Biodisponibilità tra due farmaci, ovvero la disponibilità del principio attivo nel sangue dopo il suo assorbimento e il passaggio dal fegato. Si va quindi in modo molto curato, su gruppi di volontari sani, a misurare la concentrazione plasmatica del principio attivo e come questa varia nel tempo , quindi si calcola con che velocità ed in quale quantità il principio attivo si rende biodisponibile nell'organismo per svolgere la sua azione terapeutica. Gli organi regolatori internazionali (FDA Americana, EMA Europea) e Nazionali (AIFA)hanno per convenzione valutato che su questo valore della biodisponibilità ci possa essere una variabilità (differenza) tra i farmaci comunque compatibile con il risultato finale: un'efficacia essenzialmente simile. Quindi la differenza tra i farmaci ci sarà sempre su questo parametro (Biodisponibilità): questa differenza ci sarà sempre perché non è un parametro legato al farmaco bensì alla risposta individuale dei pazienti al farmaco.  Pazienti ad esempio con peso diverso, o diverse abitudini alimentari, se utilizzassero lo stesso farmaco (ovvero le stesse compresse della stessa scatola) registrerebbero molto probabilmente valori diversi di biodisponibilità del principio attivo.
Due medicinali, per essere perfettamente uguali (nei limiti imposti dalle norme di buona preparazione) devono essere licenziati dallo stesso impianto di produzione è quindi chiaro che anche un farmaco di marca che è prodotto in diverso impianto di produzione, può non essere uguale ad un altro farmaco di marca che ha la stessa composizione.  Ma qui non stiamo parlando di farmaci uguali, ma di farmaci equivalenti.  Perché se questo stesso concetto fosse esteso ad uno stesso farmaco che ad esempio per l'Europa è prodotto in Germania, mentre per il Nord America negli Stati Uniti, allo stesso modo non potremmo parlare di farmaci uguali, pur essendo di marca, ma di farmaci che si "equivalgono".
Gli studi di bioequivalenza non utilizzano parametri clinici di efficacia, bensì si limitano a confrontare la biodisponibilità sistemica di due prodotti. I test di bioequivalenza sono basati sul confronto statistico di parametri farmacocinetici che caratterizzano la biodisponibilità dei due prodotti: generalmente vengono usati i parametri AUC, Cmax e tmax; però, quando ciò non è possibile, si può ricorrere a parametri relativi all'escrezione urinaria o a parametri farmacodinamici direttamente correlabili con l'esposizione al farmaco.
Una formulazione da testare ed una formulazione standard di riferimento sono definite bioequivalenti se si può determinare, con un buon livello di confidenza, (parametro statistico che determina con un certo grado di fiducia ciò che è stato verificato in un campione può essere poi ricondotto sull'intera popolazione) che la differenza tra le loro biodisponibilità rientri in un intervallo predefinito come "intervallo accettabile" di bioequivalenza, convenzionalmente ritenuto compatibile con l'equivalenza terapeutica.
In pratica, i test di bioequivalenza consistono nel dimostrare che le differenze di biodisponibilità, che inevitabilmente esistono tra due prodotti essenzialmente simili, non superino un certo intervallo di variazione.

  • bioequivalenza: equivalenza media di due farmaci aventi profilo di biodisponibilità accettabilmente simile (compreso circa nel 20% in più o meno dell'area sotto la curva);
  • equivalenza terapeutica: parametro presunto in base ad una bioequivalenza media compresa nei parametri di accettabilità.

Con un sostanziale accordo internazionale, si è individuato l'intervallo accettabile di bioequivalenza adeguato a confrontare la biodisponibilità del prodotto test con quella del prodotto standard. Tale intervallo è fissato nel range 0,80-1,25, quando si considera la media dei rapporti individuali tra la AUC della formulazione assoggettata a test e quella della formulazione di riferimento; oppure è fissato entro il range ± 0,20 quando si utilizza la differenza tra parametri normalizzata per il parametro della formulazione standard; il livello di confidenza è generalmente fissato al 90%.
Il valore ± 20% è stato scelto perché i fenomeni biologici sono variabili, infatti due unità posologiche dello stesso farmaco, somministrate a due differenti soggetti o in diversi momenti, danno curve di biodisponibilità differenti entro un range del ± 20%.
Tale valore non varia solo per i farmaci generici, ma anche per il farmaco "griffato", di marca e questo è l'aspetto che viene sempre omesso in questa leggenda metropolitana.
Del resto l'efficacia di un farmaco "brand" (di marca) non è valutata su un singolo individuo, ma sulla popolazione.

Infine è bene aggiungere un utile chiarimento:  l'eccipiente è considerato materiale inerte, ma ciò non significa che un singolo individuo non abbia sviluppato una particolare intolleranza a quella sostanza e di conseguenza possa sviluppare una allergia. Naturalmente ciò vale per il farmaco generico, ma anche per quello di marca.


In tutto il mondo, soprattutto nelle nazioni più industrializzate si utilizza molto il farmaco generico per curarsi. Un dato deve farci riflettere: negli Stati uniti e in Gran Bretagna 7 farmaci su 10 sono usati come generici, non ci risulta che in questi Paesi le cure sanitarie siano peggiori di quelle italiane.

 

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